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Affreschi della Chiesta di Santa Caterina di Alessandria, a Galatina

I personaggi di questa parabola di Gesù sono due figure, così tanto usate nei testi evangelici, da apparire stereotipate: una vedova ed un giudice. La prima, il simbolo della povertà (ai tempi di Gesù l’insistenza di una qualsiasi parvenza di stato sociale, poneva la donna che era rimasta priva di un marito in una condizione di assoluta indigenza. La sua vita veniva resa possibile solo grazie all’osservanza delle leggi della Torah che imponevano delle decime sul raccolto da destinare, appunto, alle vedove e agli orfani. L’esistenza degli appartenenti a queste due categorie era nondimeno molto misera.) E dall’altra parte un giudice, uno che ha potere. Si tratta, volta per  volta, di stabilire se la figura in questione sappia esercitare il suddetto potere per servizio o solo per vantaggi personali. In questo caso non ci sono dubbi; il giudice viene definito disonesto ed anche il pensiero, espresso a bassa voce, non ci mostra certamente un personaggio degno di onore o di ammirazione. Il problema però è di ordine più globale: che cosa vi vuole dire il Signore con questa piccola storia? La letteralità del testo è chiara: se un giudice disonesto, che pensa solo a  se stesso, e agisce per i motivi sbagliati, renderà comunque giustizia ad un misero, tanto più farà questo il Padre verso i suoi eletti! Ma ciò che ci rimane non perspicuo viene proprio dalla considerazione che  invece, spesso, sentiamo il Signore che tace, apparentemente sordo alle nostre invocazioni, come un giudice o un padrone distratto e silente. Ma forse è proprio realtà di questa prova per la fede che il Signore voleva evidenziare. Anche quando il Signore sembra lontano, anche quando appare come distratto e distaccato, noi sappiamo che un Padre buono non può dimenticarsi dei figli. Si tratta quindi ancora una volta della nostra fede. Sappiamo abbandonarci alla fiducia nel Dio della nostra vita, sapendo in noi stessi che, al di là delle apparenze, Lui saprà donarci tutto quello di cui abbiamo bisogno?

Siamo capaci di  confessare: “Noi siamo sicuri che lo farà, ed in un modo ben più totale ed integrale di quello di un qualsiasi giudice disonesto!”  Magari anche in una forma che noi  stessi non ci aspetteremmo, andando oltre il nostro sconcerto e vincendo i nostri dubbi ed incertezze?

Se così non fosse, come potremo sperare che sopravviva uno spazio per Dio, nella nostra società, nella nostra vita, nei nostri cuori?

Affreschi della Chiesa di Santa Caterina di Alessandria, a Galatina

A Galatina, in Puglia, esiste una chiesa, dedicata a Santa Caterina di Alessandria, tutta coperta di affreschi che narravano anche a chi non sapeva leggere, l’intera vita del Signore. Tra questi affreschi anche la storia che costituisce la parabola di questa domenica, dove l’artista aggiunge anche alcune sue interpretazioni.

La scena è duplice e Gesù, con i discepoli sembra assistere direttamente a ciò che nel testo viene solo narrato: la vedova deve esporre la sua richiesta non solo davanti ad un giudice, ma ad una serie di figure che sembrano distratte, ben lontane da un ascolto attento delle rivendicazioni della poveretta. Anche il bancone a cui la donna si accosta contribuisce ad aumentare il distacco tra lei e colui che dovrebbe aver compassione di lei e della sua miserevole condizione. E la città in cui questa cena si svolge, sovrasta tutto, sembra quasi una chiesa. La donna, umile, tende la mano; i tre uomini orgogliosi e sicuri di sé continuano a parlare come se nessuno li stesse interpellando. Lei sicuramente li disturba e possiamo pensare a loro come dei fittizi interlocutori del pensiero del giudice che, alla fine, si risolverà ad ascoltare la poveretta solo per togliersela di torno. La mano di Gesù invece benedice, non certamente l’intera scena, quanto la richiesta della vedova, fatta con una fede che non conosce ostacoli. Con la sua benedizione la indica ai discepoli che lo stanno accompagnando, ed esprime il suo dubbio: ci sarà sulla terra, al ritorno del Signore, una fede simile sulla terra?

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