Tutte le volte che mi metto a vedere un sequel, lo faccio sempre con una forma di circospetto malumore, leggermente prevenuto: molto probabilmente il film che vedrò sarà solo una operazione commerciale, volta a sfruttare il successo della prima pellicola, senza il necessario percorso di costruzione ed elaborazione della storia, senza la indispensabile riflessione preliminare e tutto il lavoro di riscrittura e limatura che permette poi di distinguere il capolavoro dal prodotto commerciale. Tutte queste sensazioni mi affollavano la mente e l’animo quando mi sono seduto sul poltroncina per vedere Blade runner 2049. Sarà all’altezza dell’originale da cui sono scaturiti innumerevoli versioni e innumerevoli dibattiti? Sarà stata sufficiente la partecipazione di Ridley Scott alla sceneggiatura per garantire una atmosfera coerente con le aspettative? Il regista di questa nuova pellicola sarà stato capace di suscitare le stesse emozioni?
La risposta a tutte queste domande, dopo la visione, è stata sinceramente e senza dubbi Sì. Il ritmo, lo scenario, le atmosfere sono del tutto coerenti con la prima versione e ci conducono ad un altro episodio della storia sicuramente stimolante.
Ma questo non è ancora tutto: questa nuovo film ci porta anche nuove conclusioni. Per quale motivo ho deciso di riportare su queste pagine le mie riflessioni su questo recente prodotto del cinema holliwoodiano che sempre più si avvia a narrarci storie fini a se stesse, quasi fiabe incantatrici ed esclusivamente di intrattenimento?
Stupirò forse molti dicendo che alla base di questa pellicola (volontariamente o inconsciamente) io credo che il regista abbia inserito un tema esplicitamente teologico e sicuramente capace di suscitare domande e perplessità.
Certo già nell’originale i temi etici della liceità di creare nuovi esseri viventi, la possibilità di chiedersi in che modo l’uomo può arrogarsi il diritto di decidere della vita e della morte di bio-organismi innescava tutta una serie di riflessioni di stampo bioetico che sono ancora oggi di attualità. Credo però che l’attuale pellicola faccia un deciso salto in avanti, ponendosi esplicitamente sul piano teologico fondativo.
È del tutto ovvio che alla base di tutto sta il racconto della creazione, la volontà dell’uomo di essere Dio (come la tentazione del serpente nel peccato di Adamo: “voi sarete come Dio!”), la confusione tra “fare” e “creare” (sembra quasi di sentire gli echi del credo cristiano a proposito di Gesù, definito “generato e non creato”), l’attesa e la ricerca di un figlio (evento che fin dall’inizio è stato definito un “miracolo”), un figlio che promette una nuova epoca, una nuova umanità, la nuova possibilità di un evento gratuito, un evento di grazia impensabile e insperata. Tutte riflessioni che non giungono nuove alle orecchie di chi è abituato ad esercitare il pensiero sul dogma cristiano dell’incarnazione.
E ancora: durante tutta la storia si oscilla continuamente tra la ricerca di qualcosa che sia reale, vero, talvolta anche con la impossibilità di decifrare se un essere vivente è fatto o creato, ma con la continua confusione tra organismi, ologrammi, replicanti e uomini “nati” che diventano esseri speciali, ma che spesso speciali non sono. Dove sta la “realtà”, la possibilità di essere res in se stessi? Che cosa significa reale? Davvero quello che noi produciamo e che spesso definiamo “virtuale” è per questo meno reale?
E’ più reale l’ologramma Joi nei suoi atti d’amore gratuito e dimentico di sé, o il creatore di androidi Wallace che solamente sogna un mondo di cui sia l’esclusivo artefice, unico Dio Padre, per raggiungere il quale compie e fa compiere azioni nefaste e assolutamente riprovevoli?
E’ più reale K, con la sua illusione di essere lui il Figlio atteso, che giunge proprio all’amore totale verso il padre Deckart, donando la sua vita, o la capo sezione Joshi che vuole uccidere il figlio per conservare il mondo così com’è, per paura di una rivoluzione totale?
Il figlio (o meglio la Figlia) è in realtà Stelline, la creatrice di ricordi, frutto di un amore grande e assoluto, che rimanda alla fine del film precedente, tra Deckart e Rachel. Stelline è un frutto capace di produrre memorie di amore e di serenità, capace di impiantare anche nei replicanti quell’empatia di cui gli esseri umani spesso sono privi, perché rivolti solo verso la propria autorealizzazione, una empatia che nasce anche dal limite, dalla vulnerabilità, dalla impossibilità di vivere normalmente per una allergia a qualunque contatto con l’esterno. A tutti noi la possibilità di continuare la riflessione: dove sta la nostra possibilità di esistenza? Dove sta la nostra possibilità di “realizzazione”? Nell’esclusivo perseguire la nostra volontà ed i nostri desideri, in quello che il teologo Sequeri definisce il monoteismo del sé, che lo psicologo Recalcati stigmatizza come il “complesso di Narciso”? Oppure nella consapevolezza del limite, nella scoperta che il limite non ci “limita”, ma ci apre all’altro? Nella possibilità di trovare il nostro io nella capacità di vivere come “esseri per gli altri”? (ad immagine del Figlio?)
Forse sembrerà impossibile, ma questo film di azione, questo film di fantascienza riesce a produrre non solo dibattiti e riflessioni, ma forse anche quella stessa lacrima che vediamo brillare negli occhi di Stelline quando analizza in K il suo ricordo di bambina maltrattata, potrà passare negli occhi di uno spettatore consapevole quando, alla fine del film, la morte di K, sotto un cielo innevato realizzerà quell’incontro tra Padre e Figlia che potrà innescare davvero sviluppi imprevisti.
Forse anche un terzo film!